Cos’è la fermentazione malolattica, come funziona e perché fa bene a certi vini

Cos’è la fermentazione malolattica, come funziona e perché fa bene a certi vini

Nel cuore delle cantine, dopo la fermentazione alcolica, si compie un processo silenzioso ma cruciale, capace di trasformare profondamente il profilo sensoriale del vino: la fermentazione malolattica. Spesso evocata come una fase “secondaria” della vinificazione, è in realtà una tappa determinante per alcune tipologie di vino, in particolare per quelli rossi strutturati e per certi bianchi destinati all’affinamento. Ma che cos’è davvero la fermentazione malolattica? Quali cambiamenti induce nel vino e perché viene talvolta evitata o favorita a seconda dello stile ricercato?

Una trasformazione batterica dal grande impatto sensoriale

A differenza della fermentazione alcolica, condotta dai lieviti e responsabile della trasformazione degli zuccheri in alcol, la fermentazione malolattica è un processo batterico. A innescarla sono i batteri lattici, in particolare il Oenococcus oeni, che trasformano l’acido malico presente nel vino in acido lattico e anidride carbonica.

L’acido malico è naturalmente presente nell’uva e ricorda, dal punto di vista gustativo, l’acidità verde e pungente della mela verde. Con la conversione in acido lattico, più morbido e rotondo, il vino perde parte della sua spigolosità, guadagnando in morbidezza e armonia. Non si tratta soltanto di una correzione dell’acidità: la fermentazione malolattica conferisce al vino aromi nuovi, spesso riconducibili a note lattiche, burrose, speziate e talvolta a sfumature di nocciola o cuoio, a seconda delle condizioni in cui avviene.

Quando e perché si sceglie la malolattica

La decisione di far svolgere o meno la fermentazione malolattica non è mai casuale. Dipende da numerosi fattori: vitigno, stile di vino desiderato, condizioni climatiche dell’annata e scelte enologiche del produttore. In genere, nei vini rossi strutturati e destinati a un lungo affinamento, come Barolo, Brunello di Montalcino, Chianti Classico, Bordeaux, Syrah o Cabernet Sauvignon,  la malolattica è quasi sempre incoraggiata.

In questi vini, la trasformazione dell’acido malico in acido lattico permette di ammorbidire l’acidità, rendendo il sorso più rotondo, meno tagliente e più adatto a una lunga evoluzione in bottiglia. Inoltre, contribuisce a una maggiore stabilità microbiologica: eliminando l’acido malico, si evita che la fermentazione possa innescarsi spontaneamente in bottiglia, causando problemi di rifermentazione indesiderata.

Diverso è il discorso per i vini bianchi freschi e aromatici, come Sauvignon Blanc, Riesling, Vermentino o Pinot Grigio, in cui si tende a inibire la fermentazione malolattica per preservare la freschezza e la vivacità acida. In questi casi, i produttori mantengono il vino freddo o aggiungono anidride solforosa per bloccare lo sviluppo dei batteri lattici, assicurandosi che l’acidità malica resti intatta.

Chardonnay e fermentazione malolattica: un connubio d’eccellenza

Tra i vini bianchi, un’eccezione celebre è rappresentata dallo Chardonnay, in particolare quello vinificato in stile borgognone. Nelle denominazioni più prestigiose della Côte de Beaune, come Meursault, Puligny-Montrachet o Chassagne-Montrachet, la fermentazione malolattica è parte integrante del processo di produzione. Grazie a essa, lo Chardonnay sviluppa la sua tipica ricchezza burrosa, con sentori di panna, nocciola, vaniglia e tostatura, spesso amplificati dall’affinamento in barrique.

Anche in California, Australia e Sudafrica, molti produttori scelgono di avviare la fermentazione malolattica nei loro Chardonnay, proprio per conferire maggiore complessità e struttura. Tuttavia, in alcune zone più fresche, come Chablis, si tende a limitarla o a evitarla del tutto, per valorizzare la mineralità e la tensione acida tipiche dei terreni calcarei.

Una scelta stilistica, tra tecnica e natura

La fermentazione malolattica può avvenire in modo spontaneo, se i batteri lattici sono già presenti nel mosto e le condizioni ambientali sono favorevoli, oppure può essere indotta inoculando ceppi selezionati. Le cantine moderne spesso prediligono la seconda opzione, per avere maggiore controllo sul processo ed evitare derive organolettiche sgradite.

La temperatura ideale per la fermentazione malolattica si aggira tra i 18 e i 22 °C e il suo completamento può richiedere da alcune settimane fino a un paio di mesi. Durante questo periodo, il vino va monitorato attentamente: l’eccessiva presenza di ossigeno, un pH troppo basso o livelli elevati di solforosa possono comprometterne il buon esito.

Al termine della fermentazione, i vini risultano più morbidi, rotondi e spesso anche più complessi, ma con un’acidità totale ridotta. È quindi essenziale che la scelta di attivare la malolattica sia coerente con l’identità del vino e con le aspettative del consumatore.

Impatto sul profilo aromatico e sulla longevità

Dal punto di vista aromatico, la fermentazione malolattica può amplificare note di burro, crema, yogurt, mandorla e tostatura. In alcuni casi, può anche sviluppare aromi più complessi, come il cuoio, il sottobosco o il tabacco, particolarmente apprezzati nei grandi vini rossi da invecchiamento. Tuttavia, se non ben gestita, può generare odori sgradevoli, come l’acido acetico o composti solforati, a scapito della pulizia e dell’eleganza del vino.

In termini di longevità, i vini che hanno svolto correttamente la malolattica e sono stati ben affinati, mostrano una maggiore stabilità e un’evoluzione più armonica. Questo è uno dei motivi per cui molte etichette di fascia alta, siano esse rosse o bianche, prevedono questo passaggio nella loro vinificazione.

La fermentazione malolattica non è un semplice passaggio tecnico, ma una vera e propria scelta stilistica che incide profondamente sul carattere del vino. È un alleato prezioso per i rossi strutturati e per gli Chardonnay di grande corpo, ma può diventare un ostacolo se si punta a un vino fresco e scattante. Comprenderne le dinamiche aiuta a leggere con maggiore consapevolezza l’etichetta di un vino e, soprattutto, a capire perché due vini dello stesso vitigno possano avere profili così diversi. Un dettaglio invisibile agli occhi, ma chiaramente percepibile al palato.

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